venerdì, 17 Gennaio 2025
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Rainbow for Africa, c’è chi davvero li aiuta “a casa loro”

Rainbow for Africa, tutto sulla Ong che sta lottando per migliorare la sanità africana. Quando è nata e come funziona.

Marcello Caponigri
Marcello Caponigri
Giornalista professionista, classe '91, si è occupato di cronaca, di esteri, di politica e di finanza, sia per testate cartacee sia online. Creatore di podcast e di newsletter tematiche, è ora di base a Milano dove segue il mondo del risparmio gestito.

Prima di parlarvi di Rainbow for Africa, è bene ricordare che in Italia quando si parla di migrazione, non sempre si è a conoscenza dei problemi che possono spingere la popolazione a tentare di raggiungere il nostro Paese. Fra questi, oltre ai conflitti e alle economie arretrate, vanno aggiunti i problemi sanitari. In Africa, chi ha necessità di un intervento chirurgico raramente riesce ad accedere a una sala operatoria.

Dalle statistiche del World Health Organization, solo il 6% delle persone che avrebbero bisogno di un intervento chirurgico riesce ad essere operato. “La maggior parte di queste operazioni consiste in tagli cesarei“, racconta il dottor Paolo Narcisi, medico specializzato in anestesia e rianimazione, responsabile SSD Coordinamento Emergenza Territoriale AOU Città della Salute e della Scienza di Torino, nonché presidente di Rainbow for Africa.

Si tratta di una Ong fondata per contribuire allo sviluppo sostenibile dell’Africa che ha operato in Burkina Faso, Etiopia, Haiti, Rwanda, Senegal e Sierra Leone e in questi mesi sta lavorando ad un progetto in Tanzania.

Nella regione centrale della Tanzania, vicino alla città di Iringa, c’è questo ospedale rurale che assiste una serie di villaggi.

Ci hanno chiesto aiuto per iniziare un’attività chirurgica e ci è piaciuto il progetto: la direttrice della scuola è una suora, ma è anche un medico, una cardiologa, che gestisce una scuola di infermieri e dirige l’ospedale in modo molto efficiente.

Il dottor Narcisi racconta come la loro collaborazione sia iniziata circa un anno e mezzo fa e come, in questo lasso di tempo, siano stati costruiti i muri per le sale operatorie. “Nell’ultimo mese, io e il professor Giuseppe Diana, che è un chirurgo, ex ordinario di chirurgia dell’Università di Palermo, siamo stati lì per mettere a punto le sale operatorie e rendere operative le attrezzature che abbiamo portato, così da iniziare l’attività chirurgica“, spiega Narcisi.

Questo lavoro ha già portato i primi risultati: “Sono stati fatti i primi 14 interventi ed è iniziata la formazione che proseguirà con l’invio di nostri team di medici e infermieri per migliorare le competenze del personale locale“.

Un elemento importante è quello di utilizzare al meglio le risorse presenti, ma per farlo è necessario a volte di uscire degli schemi tradizionali: come spiega il presidente di Rainbow for Africa, infatti, la maggior parte degli interventi chirurgici che avvengono in Italia viene fatta in anestesia generale, una pratica sicura in cui il paziente viene messo in coma farmacologico e collegato a una macchina che gli permette di respirare e di essere monitorato.

In Africa, spesso questo può essere difficile “sia perché non c’è un medico anestesista in quella sala operatoria, sia perché le attrezzature hanno una qualità più scarsa rispetto a quella che possiamo avere in Italia”. Come se non bastasse, è diventato molto difficile portare farmaci o attrezzature dall’Europa per i costi di trasporto.

I problemi locali

Così come nel nostro Paese, la chirurgia è più costosa di un trattamento internistico, però alcune situazioni non possono prescindere da un intervento chirurgico. “Il 6% che citavo prima è in gran parte coperto dai tagli cesarei. La necessità di far nascere dei bambini con un intervento chirurgico è dato dal fatto che in molti paesi dell’Africa le donne che devono partorire sono giovani, il oro bacino è ancora stretto e non è possibile un parto naturale. In altri casi ci sono problemi di malattie del bambino o del suo posizionamento, come succede in tutto il mondo“.

In altri casi ancora, però, ci sono problemi nuovi dovuti alle trasformazioni delle abitudini locali. Come spiega Narcisi, in Africa è in atto un aumento delle dimensioni dei feti a causa della diffusione sempre maggiore del cibo spazzatura fra la popolazione più povera.

Abbiamo fatto una serie di screening in questo ultimo anno in Malawi e in Senegal, accorgendoci che gli strati più bassi della popolazione avevano colesterolo o glicemia più alti pur in una situazione di malnutrizione. Il cibo spazzatura provoca un aumento delle dimensioni dei feti e quindi una difficoltà a essere partoriti per via naturale, così come poi creerà tutta una serie di problemi ai bambini“, spiega Narcisi.

Stiamo trovando bambini diabetici anche se malnutriti, che sembra una cosa assurda. Ma è quello che sta succedendo perché soprattutto in alcuni paesi in cui è molto forte la penetrazione asiatica nella costruzione di strade, nell’edilizia, e le navi che portano attrezzature e operai portano contemporaneamente merci, in gran parte delle quali sono cibo con contenuti di zucchero e grassi altissimi. L’essere umano si droga con lo zucchero quindi molto facilmente diventa preda del cibo spazzatura. Questo succede anche in Occidente, in Italia e soprattutto negli Stati Uniti dove anche lì gli strati più poveri della popolazione tendono a diventare obesi, diabetici, ipercolesterolemici“.

A questa situazione vanno aggiunti gli interventi chirurgici, anche banali, che però possono diventare estremamente importanti: gli interventi addominali di appendiciti se non vengono trattati adeguatamente possono portare alla morte o comunque gravi conseguenze. “Queste persone non riescono ad accedere alla chirurgia primo perché non ci sono strutture, quindi mancano le sale operatorie e le attrezzature, secondo perché il personale sanitario è poco”.

La presenza medico-chirurgica e le risorse

“In Africa e in alcuni paesi il rapporto è allucinante”, dice Narcisi. “Il dato che abbiamo sul Malawi, dove stiamo lavorando da oltre un anno, è di 400 medici per 20 milioni di persone, quindi vuol dire un medico ogni 50.000 abitanti. In molti casi può aiutare la presenza negli ospedali di infermieri e tecnici che vengono formati a fare alcune cose che nel nostro Paese farebbero i medici, come l’anestesia o la chirurgia, ma bisogna formare bene queste persone”.

Con tempo e risorse è infatti possibile addestrare un infermiere a fare l’intervento chirurgico per un’ernia o per un parto cesareo, ma anche in questo caso, questo personale tecnico infermieristico e non medico è scarsissimo rispetto alle necessità della popolazione: vuol dire che c’è un infermiere ogni 9.000 persone.

Poi c’è il problema delle risorse, ossia le attrezzature e i farmaci. “Purtroppo in moltissimi paesi africani si continua ad avere la presenza di attrezzature e farmaci di seconda o addirittura terza linea di produzione”. Ogni industria dei settori più svariati, che sia elettronica o meccanica, ha una linea di produzione dove non tutti i prodotti riescono perfettamente: questo vale anche per i farmaci.

Quelli con il principio attivo nelle dosi corrette, con gli eccipienti in proporzioni esatta finiscono nelle nostre farmacie o nei nostri ospedali perché i controlli sono stretti e rigorosi“, spiega il dottore. “Quelli che vengono un po’ meno bene o addirittura molto male, le seconde o le terze linee di produzione, finiscono nei paesi a basse risorse, quindi in Asia, in Africa e in Sud America“.

La conseguenza è quindi avere dei farmaci che funzionano male o addirittura non funzionano. A questo vanno aggiunti quelli che Narcisi definisce “i farmaci criminali”, che invece non arrivano dall’industria farmaceutica ma dalla criminalità organizzata, la stessa che tratta gli esseri umani, armi e droga. Questi farmaci non solo non hanno le corrette dosi o un principio attivo, ma possono peggiorare la situazione.

In collaborazione con l’istituto di farmacologia dell’università di Torino, abbiamo fatto analizzare alcuni farmaci come la banale tachipirina comprata sulle bancarelle dei mercati in Sierra Leone che non solo non contiene il paracetamolo, ma contiene una sostanza pirogena che fa salire la febbre e quindi induce le persone ad andare a comprare altro farmaco. Quindi c’è anche una questione legata alla criminalità e in questa situazione sanitaria le organizzazioni come la nostra si trovano a lavorare cercando di fare qualcosa“, racconta Narcisi.

Ovviamente non pensiamo di cambiare il mondo e di rendere la sanità africana ai livelli di quella italiana e del mondo occidentale, ma siamo molto contenti quando riusciamo a fare qualcosa per alcune persone per un gruppo di persone”.

Le patologie affrontate da Rainbow for Africa

La Ong affronta malattie che in Italia non siamo più abituati a dover curare o che non sono diffuse al momento, ma che come spiega il dottor Narcisi potrebbero diffondersi in futuro o tornare a causa del cambiamento climatico:

Sia in Senegal, dove lavoriamo da anni, sia in Malawi ci sono patologie legate all’acqua come la schistosomiasi, un parassita che attacca la vescica, i reni, il fegato, e nelle fasi terminali persino il midollo spinale e il cervello.

Una patologia che provoca la morte di quasi 600.000 persone all’anno in Asia, in Africa in Sud America.

Oppure è notizia di pochi giorni fa che è stata rinvenuta in Puglia una zanzara Anopheles sacharovi, quella della malaria, che rimane un problema devastante in Africa.

Ci sono altre patologie infettive, come il colera che in Italia ha colpito l’ultima volta nel 1973, con 278 casi in Campania, Puglia e Sardegna. “Io ricordo l’ultima epidemia di colera quando ero molto piccolo, ma in alcuni paesi dell’Africa tutti gli anni, al cambiamento della stagione quindi con la presenza di piogge acqua l’assenza di fognature ci sono periodicamente epidemie di colera che uccidono moltissime persone e soprattutto tra i bambini. Quindi siamo a contatto con patologie diverse che noi non siamo più abituati a trattare ma che con il cambiamento climatico non è detto che non possano ritornare“.

Rainbow for Africa, quando intervenire

In un continente con epidemie e patologie come quelle descritte, non è facile capire quando e dove intervenire, perché Rainbow for Africa non può essere ovunque.

Molto spesso riceviamo richieste di aiuto dalle comunità locali nei paesi in cui siamo operativi a volte attraverso l’ambasciata, altre volte attraverso associazioni, le comunità locali si mettono in contatto con noi e dopodiché si decide se quel progetto può essere nelle nostre corde, se abbiamo la forza di farlo e se è un progetto accettabile, ma a volte arrivano anche richieste stranissime“, spiega Narcisi.

Due anni fa, Narcisi e i suoi collaboratori accettarono la proposta di un tour operator italiano che vive in Sudafrica che organizzò un viaggio che da Cape Town raggiunse l’Equatore.

Noi ci accodammo a questo raid con l’intenzione di di dare assistenza a questo amico e alle persone che partecipavano al viaggio, ma anche di utilizzare le pause in cui loro si fermavano ogni giorno per visitare i luoghi dove ci avevano chiesto assistenza per valutare le richieste, per incontrare le persone e capire dove potevamo essere utili. In Tanzania c’è un bellissimo sito archeologico e geologico, Isimila, dove sono stati ritrovati i resti dei primi uomini preistorici, e noi avevamo un ospedale lì vicino che ci aveva chiesto aiuto. Abbiamo messo insieme le due cose e abbiamo avuto il contatto con l’ospedale Santa Theresa di Wenda, a iringa, e di lì è iniziata l’esame del progetto, l’analisi e la collaborazione“.

Logistica e i problemi tecnologici

I costi da affrontare per Rainbow for Africa sono tanti. “Da quando il Mar Rosso è diventato off-limits per le navi, organizzare un container diretto in Tanzania costa 15.000 euro solo di trasporto, poi c’è il container e il contenuto”. Quindi diventa molto difficile trasportare attrezzature dall’Europa, è più facile comprarle direttamente sul posto attraverso importatori asiatici che hanno una rotta più breve e per cui le cose costano meno. “Ma la qualità è un po’ più scarsa come sempre quello che arriva nei paesi a basse risorse, nonostante che i prezzi siano comunque abbastanza elevati“.

Per questo, la Ong diretta da Paolo Narcisi cerca di evitare che si facciano interventi in anestesia generale, facendo formazione agli infermieri anestesisti, in assenza di un medico anestesista, delle pratiche di anestesia locoregionale che non prevedano il coma farmacologico quindi la necessità di intubare un paziente collegarlo ad un respiratore artificiale.

Questo comporta anche un cambiamento della tecnica chirurgica e quindi vanno formate le persone per ottenere alla fine lo stesso risultato in modo forse un pochino più complicato, ma più sicuro in relazione a quelle risorse a disposizione. È un processo lento, di collaborazione e di crescita reciproca perché contemporaneamente noi impariamo molto con patologie che non siamo più abituati a trattare in Italia“.

La rotta di un portacontainer che arriva in Tanzania partendo dalla Cina o dall’India è nettamente più corta e più diretta rispetto a una che partendo dall’Italia fa il giro in tutta l’Africa. Rainbow for Africa, anche attraverso altre associazioni con cui collabora, cerca di avere informazioni su cosa si può comprare e sul possibile impatto positivo.

Ad esempio, in questo momento nessuno installerebbe una tac nella maggior parte degli ospedali rurali africani perché non ci sarebbe abbastanza corrente per farla funzionare“, spiega Narcisi.

Oppure ancora, gli strumenti e macchinari obsoleti che provengono dagli ospedali italiani come forma di donazione non sono utili. Ad esempio, le vecchie macchine per la radiologia che funzionavano sulle lastre a pellicola sarebbero più un problema che una risorsa perché necessitano di installare delle attrezzature vecchie, hanno bisogno di reagenti chimici ormai difficili da trovare e inquinanti, inoltre le pellicole hanno costi elevati.

Una radiologia di tipo digitale si può trovare a dei prezzi molto più accessibili che in passato perché l’evoluzione tecnologica ha permesso questo e quindi preferiamo comprarla nuova, quindi non ci regalate una radiologia. Se qualcuno vuole fare una donazione è meglio che doni del denaro“.

L’evoluzione tecnologica permetterebbe così di evitare molti problemi.Uno dei nostri capisaldi è quello di utilizzare gli ecografi per la diagnostica. Da più di dieci anni facciamo dei corsi di ecografia per la cooperazione per insegnare a medici e infermieri che vogliono andare a lavorare in Africa a utilizzare l’ecografo per fare diagnostica a tutti i livelli.

All’inizio questa cosa sembrava molto strana, poi è arrivata la pandemia in Italia e anche da noi si è cominciato a usare gli ecografi per il torace per vedere altre cose che prima si portavano direttamente in radiologia o addirittura in DAC. Invece si possono fare con un apparecchio che sta dentro una valigetta portatile che ha un costo ridotto. Quindi quello che si impara per i Paesi a basse risorse tante volte è utile anche in Italia“, racconta Narcisi.

Cooperazione, la storia di Rainbow for Africa

Paolo Narcisi ha iniziato a interessarsi di cooperazione internazionale dopo aver concluso la sua specialità in anestesia e rianimazione nel 1995, quando accettò una proposta della croce rossa internazionale e finì a Sarajevo poco dopo l’accordo di Dayton.

Era ancora un posto dove era pericoloso stare e dove soprattutto si vedevano gli esiti di una guerra orribile fatta alle porte di casa. Lì iniziò la mia avventura nella cooperazione internazionale. Tanti anni dopo, nel 2009, insieme ad altri colleghi decisi di fare un’associazione, Rainbow for Africa, che permettesse anche a chi non aveva esperienza di cominciare a fare cooperazione internazionale con l’aiuto di persone che l’esperienza ce l’avevano quindi di essere formatori anche dei nostri giovani medici, e da allora è cresciuta progressivamente: il Senegal il Burkina Faso, il Chad, la Sierra Leone durante Ebola, la Tanzania, il Malawi, il Kenya e anche Gaza fino al 7 ottobre. I Paesi in cui operiamo sono tanti e in alcuni le operazioni sono sospese per motivi di sicurezza, come purtroppo in Burkina, in Etiopia e in Chad“.

A Gaza, Rainbow for Africa aveva portato progetti di formazione di medicina d’urgenza e di ecografia. L’ospedale a Gaza cominciava a fare delle cose più avanzate rispetto ad altri posti, quindi era stata iniziata una formazione di chirurgia epatobiliare, quella che può portare persino al trapianto di fegato. “Il nostro team sarebbe dovuto partire il 14 ottobre, solo che il 7 di quel mese è successo quello che sappiamo. In questo momento non abbiamo attività nella striscia. Speriamo di poterci rientrare presto e ricominciare ad aiutare quella popolazione“. Intanto, però, l’ospedale non c’è più.

Quando sarà tutto finito, Rainbow for Africa dovrà riprendere i contatti con chi è rimasto o insegnare a chi di nuovo si dovrà impegnare per dare assistenza a quella popolazione.

Leggi anche: Arrivato in Italia attraversando mare e deserto, Randy Ashu si laurea con 110 e lode in Giurisprudenza a Napoli

Le risorse e come sostenere la Ong

Rainbow for Africa si sostiene in larga parte attraverso la partecipazione a bandi di fondazioni bancarie, fondazioni di industrie che hanno una politica sociale che prevede di destinare parte degli utili per attività umanitarie, anche se è possibile anche per i singoli dare il proprio contributo.

Partecipiamo a questi bandi e poi cerchiamo di utilizzare il meglio possibile i fondi raccolti. Noi abbiamo attività anche in Italia. Su Torino siamo presenti con il progetto Torino Street Care, che facciamo insieme al comune di Torino e con il supporto di Lavazza, di Pirelli e Iveco. Abbiamo ristrutturato un pullman trasformandolo in un pullman ospedale. È stato utilizzato anche in Ucraina nel 2022 e lo vedete in giro per Torino adesso come ambulatorio per l’assistenza sanitaria e socio legale ai fragili in collaborazione con Danish Refugees Council”.

La Ong si occupa anche di dare assistenza ai migranti che tentano di attraversare il confine francese sulle montagne della Val di Susa. “Solo l’anno scorso ne sono passati 18.000. Lì abbiamo un ambulatorio, infermieri presenti di notte e medici presenti di giorno per dare l’assistenza a queste persone“.

Tra i maggiori finanziatori non manca l’8×1000. “Noi quasi tutti gli anni riusciamo ad accedere ai bandi della Chiesa Valdese. Poi ci sono anche a volte alcuni donatori privati. Per esempio la sala operatoria dell’ospedale in Tanzania è dedicata al dottor Urs Burki, un chirurgo svizzero deceduto qualche anno fa la cui vedova ha fatto una grossa donazione per cui la sala operatoria è stata dedicata a lui“, conclude Narcisi.

Leggi anche: Tanti auguri Dottor Siddique: da venditore di rose a laureato in Medicina

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Marcello Caponigri
Marcello Caponigri
Giornalista professionista, classe '91, si è occupato di cronaca, di esteri, di politica e di finanza, sia per testate cartacee sia online. Creatore di podcast e di newsletter tematiche, è ora di base a Milano dove segue il mondo del risparmio gestito.

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