Nikolaj Vavilov, quel genio della genetica eroe della “biodiversità”

Dalla parabola drammatica-eroica di Nikolaj Vavilov nasce un'eredità morale, quel patrimonio fruttuoso e tangibile che sono le banche dei semi nel mondo a tutela della biodiversità.

Alfredo Polito
Alfredo Polito
Si occupa di copywriting, project management e comunicazione per imprese e istituzioni. Per anni ha scritto su la Repubblica ed è autore del libro "La guerra del vino". Tramite Gramsci ha fatto suo il motto di Romain Rolland: pratica il pessimismo della ragione e l'ottimismo della volontà.
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Cosa succede quando la scienza viene asservita alla politica? La storia di Nikolaj Ivanovič Vavilov può raccontarlo. Agronomo, botanico e genetista russo, oggi è considerato uno dei più grandi scienziati della storia del mondo. La sua visionaria intuizione di una vita dedicata alla scienza fu quella di utilizzare la biodiversità e la genetica per sfamare il mondo. La sua fine arrivò in un carcere staliniano, dove morì d’inedia, e di fame.

Nicolaj nasce a Mosca nel 1887, studia agronomia all’Istituto di Agricoltura di Mosca e si laurea con una tesi dal titolo che già anticipa quale sarà la sua missione di vita: “Genetica e agronomia”. È il 1912, la parola “genetica” è ancora semisconoscita nella comunità scientifica, figurarsi all’esterno, nella classe dirigente e fra le persone comuni.

Va a studiare prima a Cambridge con William Bateson, colui che la parola “genetica” l’ha coniata (dal greco “genno”, γεννώ; dare origine) nel 1905, poi a Parigi e Vienna, per poi fare ritorno a Mosca. Nel frattempo, è cambiato il mondo. L’impero degli zar fondato da Pietro il Grande è finito dopo quasi duecento anni.

Nikolaj Vavilov, la scienza al servizio dell’umanità

La Rivoluzione d’Ottobre del 1917 ha portato i bolscevichi al potere. Una destabilizzazione che ha accentuato carestie, fame e caos in un territorio sconfinato che deve riorganizzarsi. Ma la caratteristica peculiare del carattere di Nicolaj è quella di non perdersi d’animo.

Il suo progetto è quello di creare degli incroci di piante destinate all’alimentazione (grano, ortaggi, frutta) in grado di crescere e produrre in qualsiasi condizione ambientale, in grado di sfamare il popolo russo e tutti i popoli del mondo.

Con l’incrollabile convinzione che la scienza debba mettersi a servizio dell’umanità, comincia un periodo di spedizioni in tutto il mondo alla ricerca di semi e varietà autoctone dalle caratteristiche più differenti fra loro con l’obiettivo di creare una banca dei semi e studiare geneticamente ogni varietà, per poi creare degli incroci e metterli in produzione.

I dieci anni successivi sono quelli dell’epopea: compie più di cento spedizioni in più di sessanta zone del mondo, dall’Afghanistan, al Bukhara, al Pamir all’Argentina all’Eritrea, passando per Taiwan e l’Algeria alla ricerca di varietà di piante lì dove l’agricoltura era nata ed intorno ad essa si erano sviluppate le prime civiltà. Ovunque raccoglie semi e li invia all’istituto che dirige, a Mosca, per poi riprodurli e studiarli.

L’ombra sulla genetica sotto Stalin

Quando Lenin muore e gli succede Stalin, le cose cambiano. Arriva l’ossessione per l’ortodossia marxista, di fronte alla quale anche la scienza deve chinare la testa. Per gli scienziati, e non solo per loro, anche la sola origine borghese è una colpa da espiare, e la genetica viene vista con sospetto, come un’astrazione, una speculazione, una perdita di tempo che ostacola la necessità di aumentare la produzione agricola in URSS per sfamare i suoi cittadini.

Si creano due fronti: i seguaci di Mendel, il precursore della moderna genetica per le sue osservazioni sui caratteri ereditari, e i sostenitori delle teorie di Lamarck, secondo cui le modifiche che un organismo subisce nel corso della sua vita diventano ereditarie e vengono trasmesse alla progenie. Stalin non sa nulla di agronomia ma è ideologicamnte, ciecamente lamarckista. Vavilov, invece, sa che il futuro della scienza è nel lavoro indicato da Mendel. Spunta quasi all’improvviso l’oscura figura di Trofim Denisovič Lysenko, “il contadino scalzo”. Con poche competenze scienfiche era comunque riuscito a farsi notare dal regime per i suoi esperimenti sulla “vernalizzazione”, intestandosi scoperte inesistenti o inefficaci.

La cecità del regime e le purghe staliniane fanno il resto: Nicolaj Vavilov, che era stato il direttore della gran parte degli istituti agronomici sovietici, è declassato per far posto a Lysenko, appoggiato direttamente da Stalin, che è assai probabile gli scrivesse i discorsi. Ad animarlo, la spregiudicatezza, l’ambizione e l’odio di classe verso gli scienziati, colpevoli di essere borghesi e di aver studiato.

La genetica di Mendel ormai una pseudoscienza borghese

La genetica classica di Mendel è ormai considerata “pseudoscienza borghese”. L’NKVD, la polizia politica, attiva un’attività di dossieraggio nel confronti di Vavilov, sospettato di attività antisovietica e di collaborazionismo con le potenze straniere volti alla distruzione dello stato socialista e al ritorno degli zar.

È il 1941 quando viene arrestato e condannato a morte. L’anno dopo, quando fra la comunità scientifica internazionale comincia ad aggirarsi il sospetto che la sua vita sia in pericolo, viene eletto membro straniero della prestigiosa Royal Society, ma probabilmente non lo saprà mai. Questo però fa sì che la sua pena venga commutata in venti anni di detenzione.

Il regime carcerario, durissimo, non gli consentirà di uscirne vivo: morirà nel 1943, fiaccato nel corpo e nello spirito, il 26 gennaio 1943. L’uomo che voleva sfamare il mondo muore di fame in una fetida prigione sovietica di Saratov, ucciso dall’odio di classe e dalla cecità delle teorie antiscientifiche sposate in funzione strumentale dal più grande paese socialista del mondo.

La sua riabilitazione avverrà ad opera di chi succederà a Stalin, Nikita Krusciov, nella sua opera di destalinizzazione. La sua eredità resta nelle circa mille banche del germoplasma sparse per il mondo, a cui è affidato il futuro della biodiversità vegetale, e dunque quello del pianeta e di chi lo abita.

Il dramma dunque non è stato né vano né fine a se stesso, perché da quella faccenda drammatica non nasce solo un’eredità morale, ma anche un grande patrimonio fruttuoso e tangibile. Un bene a cui ambire colletivamente. Il prezzo da pagare per Nikolaj Vavilov è stato rinunciare alla vita stessa, ma con l’epilogo eroico e rivoluzionario, tipico di chi sa scandire la storia.

Leggi anche: Anselm, l’omaggio di Wim Wenders all’ultimo grande pittore del ‘900

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